DAL LIBRO DI ALBERTO MICALIZZI
Il cuore nella valigia
edito da “Il Quadrifoglio”, Livorno 2006
(pubblicazione fuori commercio)

Carmelo La Giglia
(1862 – 1922), poeta nicosiano
A cento anni dalla pubblicazione di “Musa Vernacola”


….. Accanto al lavoro del cronista e del giornalista, il poeta-farmacista Carmelo La Giglia rappresentò l’insieme dei sentimenti di solitudine e di speranza di chi partiva e il senso di disperata sconfitta di coloro i quali non erano riusciti a trovare quella fortuna idealizzata nel lungo travaglio che aveva preceduto l’esodo.
Poeta dialettale di grande spessore, utilizzò il dialetto gallo italico - eredità della dominazione normanna e sveva in Sicilia per ricordare i suoi cittadini all’estero, in specie quelli che si erano trasferiti negli Stati Uniti. Ed ad essi dedicò in particolare un atto unico, A Mereca, dato alle stampe assieme alla raccolta di poesie Musa Vernacola, pubblicata dall’Unione Tipografica di Nicosia nel 1908 e dedicata all’amico Mariano La Via, tra i più attenti studiosi del dialetto gallo italico, autore di importanti saggi sull’argomento. Mariano La Via costituiva, per il poeta nicosiano, l’uomo di cultura impegnato nello studio del folclore e della storia della città, strenuo difensore del carattere proprio di una cittadinanza che lo vide direttore de L’Eco dei Monti e lo elesse al Parlamento per il Collegio di Nicosia nel 1909.
Con quest’opera – la cui vendita andava interamente a beneficio delle cucine economiche per i concittadini poveri – il poeta ringraziava il La Via per l’amore mostrato negli studi glottologici sul dialetto nicosiano.
Lo stesso professore M.A. Garrone, nella lettera in risposta al poeta che gli chiedeva un giudizio sulla sua opera, considerò il bozzetto drammatico A Mereca semplicemente meraviglioso, in quanto costruito su “figure perfette, venute su senza stento, senza studio, con impareggiabile felicità di tocco” e, quindi, veritiero nel suo svilupparsi.
Mariano La Via provvide a spedire Musa Vernacola in 250 copie e al prezzo minimo di 50 soldi anche oltreoceano. La notizia fu diffusa nella metropoli americana attraverso un articolo del quotidiano in lingua italiano Il Telegrafo. Tra le varie organizzazioni mutualistiche, la Società di Mutuo Soccorso fra gli operai di Nicosia in New York Fratelli Testa raccolse la somma – notevole per quegli anni – di 10 lire, tanto da meritare un ringraziamento particolare da parte del prosindaco La Via, che dichiarò come l’organizzazione operaia avesse onorato con il gesto la classe sociale rappresentata e “altresì i nostri emigrati, i quali sempre e dovunque restano nicosiani, italiani”.
La Giglia intrattenne in prima persona stretti contatti con le associazioni nicosiane d’America, alle quali riconosceva lo sforzo di mantenere salde le radici dei propri iscritti e l’amore per una terra che ormai non avrebbero avuto la possibilità di rivedere. L’amore verso i suoi concittadini all’estero egli lo dimostrò soprattutto con i versi che inviava a New York in occasione di vari festeggiamenti che la Gioventù Nicosiana era usa fare periodicamente con gli associati, E la società erbitense, riconoscente verso il proprio cantore, lo elesse socio onorario a vita.
Nelle rime pubblicate nella raccolta Frizzi e carezze del 1911 traspare, oltre all’orgoglio di poter inviare i versi ad una associazione ammirata e il dolore per non essere presente alla riunione conviviale, l’amarezza per aver dovuto lasciare uno Stato che aveva richiesto il sangue di tanti compaesani in occasione dei moti risorgimentali e che poi, una volta portata a compimento l’unità del paese, aveva abbandonato i suoi figli al loro destino, costringendoli ad emigrare. Amarezza accompagnata anche dalla constatazione che il comportamento del governo sabaudo veniva sovente giustificato dal servilismo che caratterizzava la classe politica italiana.
Il rapporto con la società newyorkese fu costante, come è dimostrato ad esempio da altri versi del poeta in occasione dell’incontro conviviale tenuto dall’organizzazione a sostegno dello sforzo bellico durante la guerra di Libia del 1911.
Carmelo La Giglia si fece “vate” dell’impresa italiana, intravedendo nella conquista del territorio africano l’occasione per una colonizzazione da parte delle masse italiane, costrette ancora ad emigrare oltreoceano.
La conquista da parte delle truppe italiane delle province di Derna, Tripoli e Bengasi avrebbero così permesso il ritorno dei compaesani, nuovi colonizzatori di una acquisita terra italiana, degna di essere fecondata del proprio sudore.
Lo stretto rapporto d’amicizia che intratteneva con alcuni dei nicosiani stabilitisi negli U.S.A. portò La Giglia a produrre versi in onore di specifiche occasioni privati. È il caso, ad esempio dei veri cantati per il matrimonio dell’avvocato e banchiere, nonché corrispondente del L’Eco dei Monti prima e del Il Fascio Nicosiano poi Carmelo Amoruso con Rosina Garigliano. E all’amico Amoroso si rivolgeva, cantando che, da buon nicosiano, egli aveva scelto una moglie del paese natio.
Dotate di quella satira che talvolta, per Sciascia “si discioglie in toni crepuscolari” anche le pagine dedicate dal farmacista-poeta al fenomeno migratorio fanno intravedere uno spaccato di vita paesana entro e fuori la Sicilia: quella Nicosia a volte rifiutata da chi è costretto a restare e a vivere di stenti e amata da che, per vivere, è costretto a partire per lidi lontani.
I versi di La Giglia, ironici e allo stesso tempo intrisi di tristezza per i fratelli lontani, dipingono sentimenti comuni ai letterati che si sono interessati all’emigrazione, esprimendo in più il senso di appartenenza ad una società diversa dalle altre non soltanto per il dialetto ma per le tradizioni comuni che ne fanno un unicum in tutta la Sicilia.

Alberto Micalizzi